18.6.03

Giovanni Paolo II e le religioni. Da Assisi alla "Dominus Iesus"

di Sandro Magister
Tokyo, 18 giugno 2003


Ci sono eventi che Giovanni Paolo II ha voluto, e lui solo. Li ha voluti e li ha posti in essere, unico nella storia dei papi e contro molti della stessa Chiesa del suo tempo, cardinali, vescovi, preti, fedeli. È verosimile che dopo di lui nessun altro papa li riproporrà più. Almeno nel suo stesso modo.

Il primo di questi suoi atti specialissimi lo compì ad Assisi il 27 ottobre 1986. Chiamò attorno a sé rappresentanti delle più varie religioni del mondo e chiese loro di pregare per la pace. Ciascuno il proprio Dio. Potentemente simbolica era la visione, sulla piazza di san Francesco, di quella fila multicolore di uomini religiosi, con il papa biancovestito allineato tra loro.

Simbolo pericoloso, però. Anche se Giovanni Paolo II era lontanissimo dal volerlo, il messaggio che ne usciva per molti era quello di una Onu delle fedi. Di una coesistenza multireligiosa nella quale ciascuna fede valeva l’altra. E alla quale anche la Chiesa cattolica si iscriveva, alla pari.

Anni dopo, infatti, il 6 agosto del 2000, papa Karol Wojtyla e il cardinale Joseph Ratzinger si sentirono in dovere di emettere una dichiarazione che facesse da antidoto a questo veleno relativista. Era intitolata “Dominus Iesus” e richiamava un’elementare e fondante verità cristiana: quella secondo cui è solo in Gesù che tutti gli uomini hanno salvezza. La dichiarazione generò un terremoto. Da fuori, i paladini della laicità accusarono la Chiesa di intolleranza. E da dentro scattarono accuse di antiecumenicità. Segno che la “Dominus Iesus” aveva centrato un reale malessere della Chiesa. Che ad Assisi era stato portato allo scoperto. E che aveva il suo elemento scatenante in Asia, e ancor più nel subcontinente indiano. Ma andiamo per ordine.

Assisi, 1986

Il primo atto, dunque, di questo percorso accidentato va in scena nel 1986 nel borgo di san Francesco. Giovanni Paolo II ne diede l’annuncio il 25 gennaio e le reazioni critiche furono immediate, specie nella curia vaticana. Ma il papa non se ne fece imbrigliare, affidò la regia dell’evento a un cardinale di sua fiducia, uno dei pochissimi concordi su questo con lui, il francese Roger Etchegaray, presidente del pontificio consiglio per la giustizia e la pace. Della parte rituale si occupò il cardinale Virgilio Noé, già maestro delle cerimonie del papa. E per gli aspetti scenografici e organizzativi fu dato mandato alla comunità di Sant’Egidio e al movimento dei Focolari, l’una e l’altro sperimentati costruttori di eventi mediatici e già al centro di una rete internazionale di rapporti con esponenti di religioni non cristiane.

Il 27 ottobre, le televisioni trasmisero così in tutto il mondo le immagini di quell’evento fortemente voluto dal papa: pellegrinaggio, digiuno, preghiera, pace tra i popoli e le religioni. Giovanni Paolo II rinverdì anche una tradizione medievale invocando per quel giorno una “tregua di Dio”, un arresto nell’uso delle armi su tutti i fronti di guerra del globo. Risultò poi che quasi nessun combattente vi si attenne, ma il simbolo sovrastò la realtà e la visione del papa orante a fianco dei capi di tante religioni diverse si impose da quel giorno come uno dei marchi più forti dell’intero pontificato.

Ma insieme presero corpo anche le riserve critiche, su quello stesso evento. La giornata di Assisi non mancò di darvi alimento, in alcuni suoi gesti eccessivi. A buddisti, a induisti, ad animisti africani furono concesse per le loro preghiere alcune chiese della città, come fossero involucri neutri, privi d’irrinunciabile valenza cristiana. E sull’altare della locale chiesa di San Pietro i buddisti sistemarono una reliquia di Buddha. L’assenza da Assisi del cardinale Joseph Ratzinger, prefetto della congregazione vaticana per la dottrina della fede, fu interpretata non a torto come una presa di distanza del cardinale che per ufficio è il custode della retta dottrina cattolica. Lo stesso papa non sfuggì alle critiche. Vi fu chi ricordò che quel medesimo anno, in febbraio, durante un suo viaggio in India, aveva fatto discorsi di inaudita apertura verso le religioni del luogo e a Bombay s’era persino fatta ungere la fronte da una sacerdotessa di Shiva, con un segno di forte simbolismo sacro induista. A brontolare erano stati anche alcuni vescovi indiani. Uno di essi, dell’Andra Pradesh, disse: “Il papa conosce l’induismo dai libri, ma noi che ci viviamo dentro e vediamo i danni che produce nel buon popolo, non faremmo mai certi discorsi”.

Redemptoris Missio”, 1990

Delle critiche Giovanni Paolo II era consapevole. Ma non solo. Di quelle di un Ratzinger o di altri della sua levatura coglieva e condivideva il senso profondo. La conferma è in un’enciclica che il papa mette in cantiere poco dopo l’incontro di Assisi e che vedrà la luce nel 1990: la “Redemptoris Missio”. Come dicono le sue prime parole latine, le stesse che le fanno da titolo, questa enciclica ha per tema la missione evangelizzatrice della Chiesa, quella che obbedisce al comando di Gesù risorto ai discepoli di andare ad ammaestrare e a battezzare tutte le creature fino ai confini della terra. E come spesso avviene per le encicliche, anche questa non nasce nel vuoto, ma in risposta a una deriva reale o temuta: come un colpo di timone del successore di Pietro per rimettere la navicella della Chiesa sulla giusta rotta.

La deriva è precisamente l’impoverirsi della vitalità missionaria cattolica, la sua diluizione in un dialogo indistinto con le altre religioni e culture, o peggio, in un dialogo spogliato della volontà d’annunciare la verità e di chiedere la conversione a Cristo unico salvatore. In effetti, partendo dall’affermazione del Concilio Vaticano II nel decreto “Nostra Aetate” secondo cui “la Chiesa cattolica nulla rigetta di quanto è vero e santo nelle religioni”, s’era largamente affermata nel dopoconcilio l’idea di trasformare la missione in semplice impegno a far maturare i “semi di verità” presenti nelle diverse religioni – in altre parole ad aiutare l’induista a essere un bravo induista o il musulmano ad adorare il suo unico Dio – come se questi semi fossero essi stessi vie autonome di salvezza, al di fuori di Cristo e a maggior ragione al di fuori della Chiesa.

La “Redemptoris Missio” contrasta con decisione questa “mentalità indifferentista, largamente diffusa, purtroppo, anche tra i cristiani, spesso radicata in visioni teologiche non corrette e improntata a un relativismo religioso che porta a ritenere che una religione vale l’altra” (n. 36). Riafferma la necessità e l’urgenza dell’annuncio della Buona Novella di Gesù. Annuncio esplicito. Annuncio proclamato nella certezza che nessuna altra religione può salvare al di fuori di Cristo unica “via, verità, vita”. Pochi all’epoca notarono la centralità di questa enciclica nel magistero di Giovanni Paolo II. Ma dieci anni dopo, nel 2000, quando papa Wojtyla riterrà necessario e urgente ritornare su questi temi, numerose sue citazioni troveranno posto puntualmente nella “Dominus Iesus”, ancora più definitoria della “Redemptoris Missio” nel ribadire l’irrinunciabilità e l’insostituibilità dell’annuncio di Cristo alle genti.

La questione asiatica

Nel 1994 Giovanni Paolo II torna a spiegare la sua visione del rapporto tra la Chiesa cattolica e le religioni non cristiane nel libro-intervista da lui stesso intitolato “Varcare la soglia della speranza”, pubblicato contemporaneamente in più lingue.

Il papa sostiene che vi sono religioni per loro natura “particolarmente vicine al cristianesimo”, come quelle animiste dell’Africa, dalle quali è più facile che avvengano conversioni al Vangelo. Opposto invece è il giudizio che egli formula sulle “grandi religioni dell’Estremo Oriente”, buddismo, induismo, confucianesimo, taoismo, shintoismo. Esse “possiedono carattere di sistema”, quindi sono molto meno penetrabili, e questo spiega perché in queste regioni “l’attività missionaria della Chiesa ha portato frutti, dobbiamo riconoscere, modestissimi”.

Ma è soprattutto al buddismo che papa Wojtyla dedica attenzione e preoccupazione. Esso, dice, “è come il cristianesimo una religione di salvezza”, ma le dottrine di salvezza dell’uno e dell’altro sono tra loro “contrarie”. Quella del buddismo è “negativa”, si fonda sulla convinzione che “il mondo è cattivo, è fonte di male e di sofferenza per l’uomo”, e “per liberarsi da questo male bisogna liberarsi dal mondo”. Senza che ciò comporti alcun avvicinamento a Dio: “La pienezza del distacco non è l’unione con Dio, ma il cosiddetto nirvana, ovvero uno stato di perfetta indifferenza nei riguardi del mondo”. Insomma, “il buddismo è in misura rilevante un sistema ateo”, nonostante il fascino che esercita. “Non è perciò fuori luogo mettere sull’avviso quei cristiani che con entusiasmo si aprono a certe proposte provenienti dalle tradizioni religiose dell’Estremo Oriente”.

Questi giudizi inaspettatamente taglienti espressi dal papa sulla religione del Buddha suscitarono proteste in campo buddista, ma anche da parte di teologi cattolici all’avanguardia nel dialogo con le religioni. Vi fu chi vide Giovanni Paolo II fare retromarcia, rispetto ai passi di dialogo compiuti ad Assisi. In realtà, nello stesso capitolo del suo libro-intervista, papa Wojtyla ricordava l’incontro interreligioso del 1986 con parole che, semmai, avrebbero potuto suggerire sospetti opposti. Lo “storico” incontro di Assisi, diceva, l’aveva più che mai convinto che “lo Spirito Santo opera efficacemente anche fuori dell’organismo visibile della Chiesa”. E “opera in base a ‘semina Verbi’ che costituiscono quasi una comune radice soteriologica di tutte le religioni”.

L’enigma dei ‘semina Verbi’

Ai non specialisti l’ultima frase può suonare enigmatica. “Radice soteriologica” vuol dire capacità di salvezza eterna. Il ‘Verbum’, in greco ‘Logos’, è il Figlio di Dio fatto uomo del primo capitolo del Vangelo secondo Giovanni, per il quale il mondo è stato creato e tutti gli uomini sono salvati. Quanto ai ‘semina Verbi’, i semi del Verbo, l’espressione è antichissima, è stata coniata da Giustino attorno al 150 d.C. ed è ritornata nei documenti del Concilio Vaticano II per designare ciò che di “vero e santo” ci può essere anche nelle religioni non cristiane.

Propriamente, secondo i Padri della Chiesa dei primi secoli, Agostino compreso, i ‘semina Verbi’ non fecondano le religioni pagane, sulle quali il giudizio è radicalmente negativo, quanto piuttosto la filosofia greca e la sapienza dei poeti e delle Sibille. Ma nella sua ripresa moderna la formula è applicata proprio alle religioni non cristiane, secondo due significati. Il primo è anche quello del Concilio Vaticano II: ove i ‘semina Verbi’ sono la misteriosa presenza di Cristo salvatore in tutte le religioni, in quanto esse possono avere di “vero e santo” e quindi anche di salvifico, sempre però attraverso Cristo per vie che solo lui conosce.

Il secondo significato è quello adottato da alcune correnti teologiche della seconda metà del XX secolo. A giudizio di queste correnti le religioni non cristiane avrebbero capacità salvifica non mediata ma propria, tutte esprimerebbero molteplici esperienze del divino, indipendenti e complementari, e Cristo sarebbe simbolo di questa molteplicità di percorsi più che l’unica via necessaria.

L’oscillazione tra l’uno e l’altro di questi significati non è solo materia di disputa teologica. Influisce sulla pratica pastorale, sulla missione, sul profilo pubblico della Chiesa. Il secondo di questi significati ha preso forma, in particolare, in una precisa proposta religiosa al confine tra cristianesimo e induismo, creata in India alla metà del XX secolo da tre maestri di spirito venuti dall’Europa.

L’ashram Saccidananda

I tre sono il francese Jules Monchanin (1895-1957), l’altro francese Henri Le Saux (1910-1973) e l’inglese Bede Griffiths (1906-1993), tutti sacerdoti e gli ultimi due monaci benedettini. Monchanin e Le Saux, emigrati in India, vi fondarono nel 1950 un ashram, un luogo di meditazione e di preghiera, dedicato alla contemplazione indocristiana della Trinità. E infatti diedero all’ashram il nome di Saccidananda, parola sanscrita tripartita che evoca la trinità della fede Veda: origine del tutto, sapienza, beatitudine.

L’ashram Saccidananda sorge tutt’ora nel cuore boscoso dello Stato indiano del Tamil Nadu, presso uno sperduto villaggio di nome Thannirpalli, 300 miglia a sud di Madras. Eppure, questo remoto luogo dello spirito divenne in breve un polo d’attrazione straordinario e cosmopolita. Nel 1968, usciti di scena Monchanin e Le Saux, ne diventò guida spirituale per un quarto di secolo Bede Griffiths e l’ashram entrò a far parte della famiglia benedettina camaldolese. Vi passarono lunghi soggiorni alcuni dei più famosi teologi cattolici impegnati nel dialogo interreligioso: dal sacerdote indospagnolo Raimon Panikkar al gesuita belga Jacques Dupuis, dal singalese Aloysius Pieris, anche lui gesuita, all’americano Thomas Matus, benedettino di Camaldoli.

Il luogo stesso mostra visibilmente l’intreccio tra la fede cristiana e quella induista. Anche oggi, chi visitasse l’ashram rimarrebbe colpito dalla somiglianza tra la chiesa dove i monaci pregano e un tempio indù, non privo di richiami al buddismo. Il ‘sancta sanctorum’ è buio, misterioso come la caverna della madre terra da cui risorge la nuova creazione. E questa appare nella cupola colorata e popolata, con i suoi santi, con i quattro Gesù simili a Buddha, con il fior di loto, con i simboli dei cinque elementi, su su fino alla cuspide della divinità infinita. All’inizio di ogni preghiera i monaci fanno risuonare la sacra sillaba sanscrita “Om”, il suono primordiale da cui è nata la terra. Ogni liturgia è riplasmata e riflette spazi interreligiosi senza confini immediatamente riconoscibili.

C’è però un elemento di sorpresa che balza all’occhio del visitatore, e oggi ancor più che nei decenni passati. I pochi monaci dell’ashram sono indiani, ma gli uomini e le donne che cercano ospitalità nel monastero no: arrivano nella quasi totalità dall’Europa e del Nordamerica. Concepito da maestri spirituali del Vecchio Continente proprio per gettare un ponte tra la fede cristiana e quella del subcontinente indiano, l’ashram Saccidananda sembra mancare il suo dichiarato obiettivo. Sembra riflettere un problema irrisolto tutto interno alla cattolicità d’Occidente.

Entra in campo Ratzinger

È il problema che il cardinale Ratzinger ha sottoposto a critica serrata in un impegnativo discorso del maggio 1996, tenuto in Messico ai vescovi sudamericani ma con l’intenzione di parlare a tutto il mondo cattolico. Fu un discorso spartiacque, quello. Ratzinger, col pieno consenso del papa, indicò nel relativismo interreligioso “il problema fondamentale della fede dei nostri giorni”. Seguì pochi mesi dopo un documento della Commissione teologica internazionale, anch’essa facente capo alla congregazione per la dottrina della fede. Seguì il processo al teologo Dupuis, il più esposto tra i cultori della “teologia pluralista delle religioni”. Seguì la dichiarazione “Dominus Iesus”. Tutto per riorientare la Chiesa rispetto a una deriva giudicata pericolosissima.

Nel suo discorso del 1996, Ratzinger descrive il relativismo religioso come “un prodotto tipico del mondo occidentale”, tanto più insidioso quanto più “si pone in contatto con le intuizioni filosofiche e religiose dell'Asia, soprattutto con quelle del subcontinente indiano”. E perché? Perché nel corso della sua storia il cristianesimo si è confrontato con varie sfide religiose e antireligiose, dal politeismo grecoromano all'islam, alla modernità secolare. Ma oggi che le religioni d’Oriente sono il nuovo nome di questa sfida, il cristianesimo occidentale si scopre più vulnerabile. Le religioni d’Oriente hanno infatti una naturale prossimità col relativismo secolare che in Occidente già impera. E quindi esercitano un fascino contagioso, che sgretola gli stessi fondamenti della Chiesa.

Alla sfida la Chiesa ha cercato negli ultimi decenni di rispondere in più modi, che il documento della Commissione teologica del 1996 riconduce a tre principali. C'è una corrente "esclusivista", o neoortodossa, che in campo cattolico fa capo al magistero tradizionale e in campo protestante al grande teologo Karl Barth. Questa corrente difende la tesi che il cristianesimo è la sola fede salvifica ed è depositario dell’unica rivelazione diretta di Dio all'umanità. Per gli esclusivisti l’antico detto "Extra Ecclesiam nulla salus", fuori della Chiesa non c’è salvezza, continua a valere intatto.

Poi c'è la corrente degli "inclusivisti", che nel campo della teologia cattolica sono ben rappresentati da Karl Rahner. Per essi la massima si rovescia: "Ubi salus ibi Ecclesia", dove c’è salvezza lì c’è la Chiesa. E chiamano Chiesa una comunità vasta come il mondo, fatta di battezzati, di cristiani consapevoli, ma anche di masse di "cristiani anonimi”: i credenti che trovano la salvezza nelle rispettive religioni, anche in quelle dell’Asia, senza sapere di entrare misteriosamente, per queste vie tortuose, nell'unica Chiesa di Cristo.

Sono infine arrivati i "pluralisti". Il più agguerrito è il teologo presbiteriano inglese John Hick. Ma anche in campo cattolico questa corrente ha validi difensori, in testa l’americano Paul Knitter, e poi Panikkar, Pieris e i maestri spirituali dell’ashram Saccidananda. Per i pluralisti il cristianesimo non ha il diritto di rivendicare l’esclusiva della verità. Lo stesso Cristo è una realtà trascendente, anteriore a tutte le sue incarnazioni storiche, di cui Gesù non è la sola né forse l’ultima. Hanno capacità salvifica propria, per i pluralisti, sia lo "Shemà Israel" degli ebrei, sia il "Credo" dei cristiani, sia l'atto di fede dei musulmani "Non c'è altro Dio all'infuori di Allah e Maometto è il suo profeta", sia la credenza buddista secondo cui al centro della realtà si trova il vuoto del Nirvana.

Ma hanno anche pari verità, i diversi atti di fede? La questione è seria. Dal "tutte le fedi valgono" per la salvezza, i pluralisti passano rapidamente al "tutte le fedi sono vere". Ma la verità può essere così relativizzata? Si può capire che il cardinale Ratzinger, il custode della verità dottrinale nella Chiesa, veda nella teologia pluralista delle religioni un pericolo di prima grandezza. Il fatto poi che il relativismo laico e religioso dell'Europa e dell'America riceva dall'Oriente questa specie di consacrazione, accresce ancor di più la sua forza persuasiva.

Il caso Dupuis

Fino alla metà degli anni Novanta, tuttavia, le teorizzazioni pluraliste erano limitate a cenacoli intellettuali. Le cose cambiarono quando uno dei frequentatori dell’ashram Saccidananda, il teologo gesuita Dupuis, lasciò l’India e prese cattedra a Roma alla Gregoriana, retta dai gesuiti, la più autorevole delle università pontificie, quella che da secoli forma i quadri dirigenti della Chiesa cattolica mondiale. Nel 1997 Dupuis pubblico un libro che era anche la traccia del suo insegnamento, col titolo “Verso una teologia cristiana del pluralismo religioso”.

Fino ad allora, Dupuis aveva fama di teologo ortodosso. In Vaticano l’avevano chiamato a far da consulente del pontificio consiglio per il dialogo interreligioso. L’allora segretario e oggi presidente di questo consiglio, Michael L. Fitzgerald, parlando ad Assisi nel decennale dell’incontro di Giovanni Paolo II con gli esponenti delle religioni, lo presentò come “un teologo cattolico che evita il pluralismo e si oppone con forza allo svuotamento di Cristo”. E quando il libro tanto annunciato uscì, alla Gregoriana lo raccomandarono con tutte le lodi: presenti Fitzgerald e l’allora rettore dell’ateneo Giuseppe Pittau, già rettore a Tokyo della Sophia University e oggi segretario della congregazione vaticana per l’educazione cattolica.

Ma pochi mesi dopo il vento girò. Il 14 aprile 1998 “Avvenire”, il quotidiano della conferenza episcopale italiana, pubblicò un’inattesa stroncatura del libro, scritta da un teologo ben introdotto in Vaticano, Inos Biffi, nessuna parentela con l’omonimo cardinale. Sempre in aprile la congregazione per la dottrina della fede, quella presieduta da Ratzinger, aprì un fascicolo preliminare su Dupuis e il suo libro. E il 10 giugno Ratzinger e gli altri cardinali della congregazione decisero l’avvio di un’indagine segreta.

Neppure a Dupuis, l’indagato, fu detto alcunché. Ma a metà estate, ecco un altro segnale. “La Civiltà Cattolica”, il quindicinale dei gesuiti di Roma, esce con una recensione critica del libro di Dupuis. La critica ha il peso di chi la scrive, lo stimato gesuita Giuseppe De Rosa. Ma ha anche il valore aggiunto che ha ogni articolo della “Civiltà Cattolica”: quello d’essere previamente letto e autorizzato dalla segreteria di Stato vaticana. E il finale della recensione è una sequela di capi d’accusa in veste di “interrogativi”. Anzitutto su Gesù Cristo: “La cristologia di padre Dupuis rende pienamente giustizia ai dati del Nuovo Testamento e della Tradizione?”. Poi sulla Chiesa: “È dato il giusto rilievo alla mediazione della Chiesa nell’opera della salvezza?”. Infine sulla necessità di convertire gli infedeli: “Se le altre tradizioni religiose hanno le proprie figure salvifiche, i propri profeti, le proprie sacre scritture, se sono già popolo di Dio e fanno già parte del regno di Dio, perché dovrebbero essere chiamate a divenire discepole di Cristo?”.

Il 2 ottobre 1999 Dupuis è finalmente avvisato d’essere sotto indagine. Il padre generale dei gesuiti, Peter Hans Kolvenbach, gli trasmette l’elenco dei punti controversi, stabilito dalla Congregazione per la dottrina della fede. Ha tempo tre mesi per presentare una memoria difensiva. Intanto però ha l’obbligo di non parlare con nessuno dei temi contestati. Ossia non deve nemmeno più insegnare, essendo il suo corso alla Gregoriana attinente a quei temi.

Ed è proprio l’avviso della cessazione del corso, affisso alla Gregoriana, a dar notizia pubblica del processo a Dupuis, con immediata stura delle polemiche. A difesa dell’inquisito scende in campo, con un articolo sul periodico cattolico inglese “The Tablet”, nientemento che l’ultranovantenne cardinale austriaco Franz König, colonna del Concilio Vaticano II. Ma le reazioni più risentite vengono dall’India. L’arcivescovo di Calcutta, Henry D’Souza, accusa il Vaticano di voler mettere il bavaglio ai teologi, colpendone uno “stimato per la sua ortodossia” al fine di far tacere tutti, e di prendere di mira soprattutto l’India. E, in effetti, che l’India fosse sotto tiro era vero. Prima dello scoppio del caso Dupuis, i due ultimi condannati dalla congregazione vaticana per la dottrina della fede appartengono anch’essi al subcontinente. Il primo è Tissa Balasuriya, un religioso dello Sri Lanka, scomunicato nel 1996 per un suo arruffato libro in cui faceva a pezzi importanti articoli del “Credo”, poi riammesso nella Chiesa previo pentimento. Il secondo è Anthony De Mello, un gesuita indiano autore di best seller fortunatissimi, tuttora venduti in decine di lingue, condannato ‘post mortem’ il 24 giugno 1998 con l’accusa d’aver dissolto Dio, Gesù e la Chiesa cattolica in una religiosità cosmica di sapore orientale, un po’ new age.

Dominus Iesus”, 2000

Si avvicina l’Anno Santo del 2000, ideato e preparato con somma cura da Giovanni Paolo II, e la Chiesa sembra voler far chiarezza in casa. L’inaugurazione del Giubileo, in verità, rinfocola alcune critiche. La cerimonia dell’apertura della porta santa è audacemente nuova, rispetto alla tradizione, e vagamente interreligiosa: al papa ammantato di colori rutilanti fanno corona danzatrici in vesti indiane e volute di profumi d’Oriente. Ma che il pensiero del papa sia tutt’altro che cedevole a concordismi è dimostrato dai gesti forti con i quali scandisce l’anno giubilare: dai “mea culpa” per i peccati dei cristiani nella storia, alla memoria dei martiri di ieri e di oggi, alla riaffermazione solenne della dottrina secondo cui “Gesù Cristo e nessun altro può darci la salvezza” (Atti 12, 4).

Questa riaffermazione prende corpo in una dichiarazione della congregazione per la dottrina della fede in data 6 agosto 2000, cui danno titolo le prime parole latine: “Dominus Iesus”. Essa non si presenta come una trattazione organica del rapporto tra la fede cristiana e le altre religioni. Si limita a definire gli errori da correggere e a ribadire le verità essenziali. Il tono è assertivo, definitorio. Uno dei suoi passaggi centrali dice: “È contraria alla fede della Chiesa la tesi circa il carattere limitato, incompleto e imperfetto della rivelazione di Gesù Cristo, che sarebbe complementare a quella presente nelle altre religioni. […] Questa posizione contraddice radicalmente le affermazioni di fede secondo le quali in Gesù Cristo si dà la piena e completa rivelazione del mistero salvifico di Dio” (n.6).

La “Dominus Iesus” si fa scudo di abbondanti citazioni dei testi del Concilio Vaticano II. Eppure, appena pubblicata, va incontro a una mole di critiche, da dentro e fuori la Chiesa, seconda solo a quella che salutò nel 1968 la criticatissima enciclica “Humanae Vitae”. Il più celebre dei teologi, il tedesco Hans Küng, la bolla come “una miscela di arretratezza medievale e megalomania vaticana”. La respingono esponenti di altre confessioni cristiane e religioni. Protestano i difensori della laicità, della tolleranza, dell’ecumenismo, del dialogo.

Ma il fatto che più colpisce è che tra le voci critiche spiccano anche quelle di alti esponenti della gerarchia ecclesiastica. L’arcivescovo Karl Lehmann, presidente della Conferenza episcopale tedesca, oggi cardinale, contesta la mancanza nella dichiarazione “dello stile dei grandi testi conciliari”. L’altro arcivescovo tedesco Walter Kasper, anch’egli futuro cardinale, lamenta “problemi di comunicazione”. E gli fa eco il cardinale Carlo Maria Martini auspicando che “poco a poco le cose saranno chiarite”. Ma è clamorosa soprattutto la presa di distanza del cardinale australiano Edward Cassidy, all’epoca presidente del pontificio consiglio per la promozione dell’unità dei cristiani. Da Lisbona, dove sta partecipando a un incontro interreligioso nello stile di Assisi, Cassidy contrappone alla sensibilità ecumenica dell’ufficio da lui presieduto l’insensibilità della congregazione per la dottrina della fede diretta da Ratzinger: “Noi, nella pratica ecumenica che abbiamo, possediamo un orecchio sensibile che si accorge se si sta urtando qualcosa. Loro invece hanno un modo scolastico per dire ‘questo è vero, questo non è vero’. Il testo ha creato equivoci e noi ora dobbiamo cercare di evitare interpretazioni non precise”. A rassicurazione dei critici, Cassidy aggiunge che comunque la “Dominus Iesus” non porta la firma del papa. Come dire che è di debole autorevolezza ed è più facilmente rimediabile.

Ritorno alle origini

In effetti è Ratzinger che l’ha firmata. Ma in fondo alla dichiarazione c’è anche scritto che Giovanni Paolo II l’ha “ratificata e confermata con certa scienza e con la sua autorità apostolica, e ne ha ordinata la pubblicazione”. E a fugare ogni equivoco, domenica 1 ottobre 2000 interviene pubblicamente il papa in persona a ribadire che la “Dominus Iesus” è stata da lui voluta e “approvata in forma speciale”.

Quanto alle specifiche accuse di parte ecclesiastica, è lo stesso Ratzinger a controbatterle, in un’intervista alla “Frankfurter Allgemeine Zeitung” riprodotta l’8 ottobre dall’”Osservatore Romano”. La “Dominus Iesus”, dice il cardinale, ha ripreso i testi conciliari “senza aggiungere o togliere nulla”. Sia Cassidy che Kasper “hanno partecipato attivamente alla stesura del documento” e “quasi tutte le loro proposte sono state accolte”. Se un problema di comprensibilità c’è, “il testo va tradotto, non disprezzato”. Ma soprattutto, “con questa dichiarazione, la cui redazione ha seguito fase per fase con molta attenzione, il papa ha voluto offrire al mondo un grande e solenne riconoscimento di Gesù Cristo come Signore nel momento culminante dell’Anno Santo, portando così con fermezza l’essenziale della fede cristiana al centro di questo evento”.

Le polemiche sulla “Dominus Iesus”, conclude Ratzinger, non devono oscurare il suo vero obiettivo, che è quello di riaffermare con forza “l’essenza del cristianesimo”, riassunta dall’apostolo Paolo nella prima lettera ai Corinti (12, 3) nella formula di fede “Gesù è il Signore”.

Ed è proprio quest’ultimo richiamo a lasciare il segno. Un cardinale teologo, l’arcivescovo di Bologna Giacomo Biffi, lo riprende e rilancia con parole appuntite: “Che la congregazione per la dottrina della fede abbia ritenuto di dover intervenire con la dichiarazione ‘Dominus Iesus’ circa ‘l’unicità e l’universalità salvifica di Gesù e della Chiesa’ è di una gravità senza precedenti: perché in duemila anni mai si era sentito il bisogno di richiamare e difendere verità così elementari”.

Il seguito dei fatti dà conforto sia a Ratzinger che a Biffi, oltre che al papa. Nell’autunno del 2001, tra i maggiori cardinali e vescovi di tutto il mondo riuniti in sinodo a Roma, nessuno più torna a polemizzare con la “Dominus Iesus”. Anzi, i più concordano nel giudicare davvero in pericolo l’ortodossia della fede e doveroso il richiamo delle sue verità fondanti. Dupuis ha fatto ammenda e ha sottoscritto un pronunciamento vaticano nel quale si riafferma che “è contrario alla fede cattolica considerare le varie religioni del mondo come vie complementari alla Chiesa in ordine alla salvezza”. Al vertice della congregazione per la dottrina della fede, come primo collaboratore di Ratzinger, è promosso il teologo Angelo Amato, specialista in cristologia e in religioni orientali, vissuto molti anni in India, autore materiale della traccia della “Dominus Iesus”.

E così Giovanni Paolo II, il 24 gennaio 2002, può ritornare con più tranquillità ad Assisi per un meeting interreligioso di preghiera simile a quello del 1986. Simile ma non uguale. Con la cura di evitare ogni apparenza di sincretismo e confusione. Ratzinger, che l’altra volta s’era tenuto lontano, questa volta ci va. La sua convinzione, che è anche la convinzione del papa, è che “va protetta la fede dei semplici”. È questa la funzione del magistero della Chiesa: “È il ‘Credo’ del battesimo, nella sua ingenua letteralità, la misura di tutta la teologia. E la Chiesa deve poter dire ai suoi fedeli quali opinioni corrispondono alla fede e quali no”.

Insomma, tra il primo e l’ultimo dei suoi viaggi ad Assisi, Giovanni Paolo II ha accompagnato l’intera Chiesa a riscoprire la sua sorgente di vita, la ragione del suo essere: “Dominus Iesus”, Gesù è il Signore.