8.7.11

L'impegno delle religioni in vista dell'incontro di Assisi

di PETER KODWO APPIAH TURKSON,
Cardinale presidente del Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace
Parlare dell’impegno delle comunità religiose per la giustizia e per la pace significa evocare la loro cooperazione in vista del bene comune della società, nel quadro di un loro dialogo. 
Mentre si poneva la domanda «con chi dialogare?», Paolo VI rispondeva: «Nessuno è estraneo al suo cuore (della Chiesa). Nessuno è indifferente per il suo ministero. Nessuno le è nemico, che non voglia egli stesso esserlo. Non invano si dice cattolica; non invano è incaricata di promuovere nel mondo lunità, l’amore, la pace» (Ecclesiam Suam, 98). Dopo aver affermato il principio della cattolicità, il Papa identificava tre cerchi concentrici di dialogo. Il primo di questi cerchi è il dialogo con l’umanità; il secondo fa riferimento ai credenti in Dio; il terzo rimanda ai fratelli cristiani separati.
Già al livello dell’umanità — primo cerchio — Paolo VI augurava che il dialogo si svolgesse al servizio della pace e si estendesse «dalle relazioni al vertice delle nazioni a quelle del corpo delle nazioni stesse e alle basi sia sociali, che familiari e individuali, per diffondere in ogni istituzione e in ogni spirito il senso, il gusto, il dovere della pace » (ibidem, 110). La stessa volontà di dialogo veniva affermata dal Pontefice a livello interreligioso, con i credenti in Dio — secondo cerchio (cfr. ibidem, 111-112) e, a livello ecumenico, con i fratelli cristiani separati — terzo cerchio (cfr. ibidem, 113-115). Paolo VI invitava inoltre a mettere in rilievo ciò che unisce i cristiani piuttosto che ciò che li divide.
A proposito specificamente del dialogo con gli altri credenti in Dio, Paolo VI pensava in particolare agli ebrei, ai musulmani e ai seguaci delle grandi religioni afro-asiatiche. Il concilio Vaticano II ha ripreso e allargato queste intuizioni di Paolo VI quando, nella costituzione pastorale sulla Chiesa nel mondo contemporaneo, ha sottolineato l’importanza del dialogo con i fratelli cristiani separati, con i credenti e i non credenti — compresi i nemici della Chiesa — in quanto cooperazione alla promozione del bene comune, vale a dire alla costruzione del mondo nella pace (cfr. Gaudium et spes, 92).
Le culture e le religioni del mondo hanno tutte un patrimonio di valori e ricchezze spirituali da condividere le une con le altre, e che possono essere considerate come una preparazione a Cristo (cfr. Lumen gentium 16; Nostrae aetate, 2; Evangelii nuntiandi, 53 ; Catechismo della Chiesa cattolica, 843). Queste tradizioni spirituali e morali possono così permettere a un dialogo fecondo di ancorarsi su una piattaforma comune. È su tale piattaforma che può svilupparsi un dialogo sincero, nel pieno rispetto delle differenze e delle diversità delle tradizioni.
Ogni comunità religiosa è chiamata a coltivare il dialogo con le altre religioni, ad aprirsi all’ascolto, per poter camminare insieme nella pace e offrire ciò che ciascuna possiede di meglio per costruire un mondo più giusto e più solidale. Anche se non è sempre possibile intavolare un dialogo sul piano teologico o dottrinale, esistono comunque altre vie, che meritano di essere approfondite, in modo particolare esiste la via del dialogo sul piano della vita e delle opere (cfr. Pontificio Consiglio per il Dialogo Interreligioso e Congregazione per l’Evangelizzazione dei Popoli, istruzione Dialogo e annuncio: riflessioni e orientamenti, 19 maggio 1991). Come ogni dialogo, quello tra i seguaci delle religioni esige non solo che si sia disponibili e desiderosi di dialogare, ma anche che si sia umili, per mettersi all’ascolto dell’altro. Se questa apertura viene a mancare, nessun dialogo è possibile.
Il dialogo stesso suppone che gli interlocutori si accolgano e si accettino nella loro specificità, con le proprie ricchezze e le proprie debolezze. Questa è la via maestra del dialogo e della cooperazione al servizio del bene comune: rispettare l’altro, senza trascurare la propria identità, ma cercando di comprendere l’altro.
I seguaci delle differenti religioni sono chiamati a unire i loro sforzi per rafforzare la solidarietà e la fraternità tra i popoli (cfr. Gaudium et spes, 92) lottando specialmente contro le cause delle ingiustizie e lavorando a trasformare le mentalità e le strutture che, purtroppo, sono spesso portatrici di peccato (cfr. Giovanni Paolo II, enciclica Sollicitudo rei socialis, 36; cfr. Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace, Compendio della dottrina sociale della Chiesa, 566). Più in generale, bisognerebbe che i credenti s’impegnassero a eliminare le cause della povertà e a lavorare insieme all’autentico sviluppo dell’uomo. Come ho ricordato all’assemblea delle Nazioni Unite in occasione del vertice sugli Obiettivi del millennio per lo sviluppo (New York, settembre 2010), è contro la povertà che si deve combattere, e non contro i poveri.
L’origine e l’obiettivo della lotta per un ordine giusto e solidale ai vari livelli della società è sempre la persona umana. Come la Chiesa insegna, la persona è titolare di diritti inalienabili in virtù della sua creazione a immagine e somiglianza di Dio (cfr. Genesi, 1, 26-27). Ciò è a fondamento della sua dignità trascendente e intangibile, sacra. Difendere questa dignità quando viene conculcata significa difendere l’uomo e, nello stesso tempo, onorare Dio, di cui è immagine.
In questo contesto merita un’attenzione speciale il diritto alla vita perché senza di esso è impossibile godere degli altri diritti. Lo stesso può essere ripetuto per il diritto alla libertà religiosa, fonte e fondamento degli altri diritti in quanto concerne ciò che è più intimo e segreto nell’uomo, vale a dire la sua coscienza. Non a caso il concilio Vaticano II insegna che, in campo religioso, nessuno può essere obbligato ad agire contro la propria coscienza (cfr. Dignitatis humanae, 2).
Parlare del diritto alla vita significa evocare nello stesso tempo il luogo dove questa sorge e cresce, vale a dire la famiglia, un’istituzione che si trova a essere oggi attaccata da più parti. Il diritto della persona a fondare una famiglia conformemente al disegno del Creatore, ad avere dei figli, a educarli secondo le proprie convinzioni religiose non può mai essere soggetto a negoziazioni strumentali. I poteri pubblici hanno l’obbligo di aiutare la famiglia perché possa essere il luogo dell’accoglienza e della crescita della vita, assicurandole protezioni giuridiche adeguate affinché riesca a contribuire al bene dei suoi membri e di tutta la società. Come il Papa Benedetto XVI ha ricordato durante il suo viaggio in Croazia: «L’apertura alla vita è segno di apertura al futuro, di fiducia nel futuro, così come il rispetto della morale naturale libera la persona, anziché mortificarla» (omelia, Zagabria, 5 giugno 2011; cfr. Caritas in veritate, 28). Tutte queste ragioni fanno sì che la difesa della vita e della famiglia costituisca uno dei campi privilegiati della collaborazione tra i seguaci delle diverse religioni.
Perché la cooperazione delle comunità religiose nel servire la giustizia e la pace sia feconda, occorre che siano evitate alcune trappole e siano superati certi ostacoli. La prima trappola è la strumentalizzazione della religione allo scopo di «mascherare interessi occulti, come ad esempio il sovvertimento dell’ordine costituito, l’accaparramento di risorse o il mantenimento del potere da parte di un gruppo» (Messaggio per la Giornata mondiale della pace 2011, 7).
Spesso, questa trappola è conseguenza del fanatismo e del fondamentalismo che cercano d’imporre, con la forza e con la violenza, le proprie convinzioni agli altri, dimenticando che «la verità non si impone che per la forza della verità stessa, la quale si diffonde nelle menti soavemente e insieme con vigore» come giustamente insegnato dal concilio Vaticano II (Dignitatis humanae, 1; cfr. ibidem, 10 e 11).
La violenza in nome di Dio trova facilmente il suo radicamento in un contesto di cecità religiosa. Una forma di violenza particolarmente preoccupante è quella del fenomeno del terrorismo contro il quale il Papa Giovanni Paolo II ha pronunciato parole forti nel suo Messaggio per la Giornata mondiale della pace 2002. Mentre riconosceva che «il reclutamento dei terroristi, infatti, è più facile nei contesti sociali in cui i diritti vengono conculcati e le ingiustizie troppo a lungo tollerate», aggiungeva: «Occorre, tuttavia, affermare con chiarezza che le ingiustizie esistenti nel mondo non possono mai essere usate come scusa per giustificare gli attentati terroristici» (ibidem, 5). Concludendo, faceva appello, in particolare, ai responsabili religiosi perché condannassero ogni violenza commessa nel nome di Dio. Essa è sempre un crimine (cfr. ibidem, 6).
Peraltro, oggi esistono forme subdole di violenza che sono una grave minaccia per la vita e l’avvenire dell’umanità. Basti pensare alla violenza contro il diritto alla vita, quale è diffusa e promossa da una mentalità antinatalista mediante più vie: contraccezione, aborto, legislazioni contrarie alla nascita, sterilizzazioni promosse nei Paesi poveri a opera di alcune organizzazioni non governative, controllo costrittivo delle nascite, eutanasia (cfr. Caritas in veritate, 28). È importante dunque che le comunità religiose — in nome del Dio fonte, autore e fine ultimo della vita — uniscano i loro sforzi per denunciare una tale mentalità a tutti i livelli, e per impegnarsi nella promozione e nella difesa della vita dal suo concepimento fino alla morte naturale. È in gioco il futuro della nostra umanità.
Il primo degli atteggiamenti fondamentali, senza il quale non può esserci né dialogo né autentica collaborazione tra i credenti, è la conoscenza approfondita dell’altro e delle diverse tradizioni religiose. Il «discorso della montagna» proclama: «Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio» (Matteo, 5, 9). La sola conoscenza teorica non basta, occorrono vie che aiutino ad attuare pratiche e collaborazioni specifiche. La pace e la giustizia non possono realizzarsi se non mediante istituzioni e relazioni positive, ossia attraverso persone che operano costantemente per il bene reciproco. Ma ciò dipende anche dall’apertura degli uomini e dei popoli al Signore, a quell’Unico che costruisce ed erige l’unità tra gli uomini, la giustizia e la pace.
Nisi Dominus aedificaverit domum, in vanum laborant, qui aedificant eam — «Se il Signore non costruisce la casa, invano vi faticano i costruttori» (Salmi, 127). Senza la preghiera non ci può essere né pace né vera giustizia. Ecco perché è importante pregare costantemente perché il Signore conceda alle comunità e ai popoli la pace e la giustizia che il mondo da solo non può assicurare. Poiché è Lui che, da qualsiasi popolo, può suscitare operatori di pace e di giustizia che abbiano il coraggio di compiere gesti per fare progredire la causa della giustizia e della pace nel mondo di oggi, degli uomini e delle donne di Dio che sappiano manifestare il suo genuino volto (cfr. Gaudium et spes, 19). «Pregare per la pace significa aprire il cuore umano all’irruzione della potenza rinnovatrice di Dio. Dio, con la forza vivificante della sua grazia, può creare aperture per la pace (...); può rafforzare e allargare la solidarietà della famiglia umana, nonostante lunghe storie di divisioni e di lotte. Pregare per la pace significa pregare per la giustizia, per un adeguato ordinamento all’interno delle Nazioni e nelle relazioni fra di loro. Vuol dire anche pregare per la libertà, specialmente per la libertà religiosa, che è un diritto fondamentale umano e civile di ogni individuo. Pregare per la pace significa pregare per ottenere il perdono di Dio e per crescere al tempo stesso nel coraggio che è necessario a chi vuole a propria volta perdonare le offese subite» (beato Giovanni Paolo II, Messaggio per la Giornata mondiale della pace 2002, 14).

(©L'Osservatore Romano 8 luglio 2011)