29.7.11

Ebrei e cattolici verso Assisi - Dibattito Card. Koch - Rabbino Capo Di Segni

La lingua del dialogo deve essere comune

di RICCARDO DI SEGNI

Nell'"Osservatore Romano" del 7 luglio, Sua Eminenza il Cardinale Koch, presidente del Pontificio Consiglio per l'Unità dei Cristiani, ha proposto alcune riflessioni sul significato della Giornata di riflessione, dialogo e preghiera per la pace e la giustizia nel mondo che avrà luogo il 27 ottobre ad Assisi.
Le riflessioni del Cardinale coinvolgono il dialogo interreligioso e nell'ultima parte dell'articolo vi sono dei riferimenti ai rapporti con l'ebraismo. Su questi punti vorrei tornare, perché si tratta di aspetti essenziali e decisivi del problema del dialogo e delle sue regole. Il Cardinale scrive che la croce di Gesù "si erge sopra di noi come il permanente e universale Yom Kippur", e "pertanto la croce di Gesù non è di ostacolo al dialogo interreligioso; piuttosto, essa indica il cammino decisivo che soprattutto ebrei e cristiani [...] dovrebbero accogliere in una profonda riconciliazione interiore diventando così fermento di pace e di giustizia nel mondo". Ferma restando la condivisione degli obiettivi di pace e giustizia, temo che queste parole, benché ispirate da fraternità e da buona volontà, se non vengono spiegate meglio, possano denunciare i limiti di un certo modo di fare dialogo da parte cristiana. Per capire l'impatto che queste parole possano avere su un lettore ebreo, è necessaria qualche spiegazione. Yom Kippur, il giorno dell'espiazione di istituzione biblica, è una data fondamentale del calendario liturgico ebraico. È il giorno in cui è concessa la remissione dei peccati. Nel passaggio tra ebraismo e cristianesimo, quest'ultimo ha ripreso alcune ricorrenze dell'ebraismo (come la Pasqua), integrandone il significato con gli elementi della sua fede. Questo non è successo però per tutte le ricorrenze ebraiche autunnali, tra cui il Kippur; una possibile spiegazione di questa assenza è che la fede cristiana ha assorbito in sé il valore espiatorio del Kippur, che non le è più necessario; ed è quello che dice qui il Cardinale parlando della Croce; ma d'altra parte il fedele ebreo che continua a celebrare il Kippur afferma implicitamente che per lui la Croce non è necessaria. Ma allora che cosa c'è di problematico nelle parole del Cardinale, che in apparenza non fa che affermare i principi della sua fede? Se fosse solo così, non sarebbe criticabile; non si può certo chiedere, nella cornice del dialogo, che uno dei due interlocutori rinunci o nasconda o eviti di testimoniare la sua fede, per un malinteso senso di rispetto nei confronti dell'altro; il dialogo presuppone la differenza. Ma il punto è che bisogna vedere cosa ci si fa con la differenza. Mi pare di cogliere nelle parole del Cardinale, in tutto il suo articolo, prima di tutto la necessità di dimostrare alla propria comunità che la necessità e l'urgenza del dialogo sono radicate nei principi della fede; e fin qui è un impegno lodevole, anche perché può esistere una minoranza di cattolici che non condivide ancora queste idee. Ma ben diversa è la sua proposta all'interlocutore ebreo di farsi indicare "il cammino decisivo" da simboli che non condivide. Tanto più quando questi simboli vengono presentati come sostituzioni, con valore aggiunto, dei riti e dei simboli in cui crede l'interlocutore. Il credente cristiano può certamente pensare che la Croce rimpiazzi in modo permanente e universale il giorno del Kippur, ma se desidera dialogare sinceramente e rispettosamente con l'ebreo, per il quale il Kippur rimane parimenti nella sua valenza permanente e universale, non deve proporre all'ebreo le sue credenze e interpretazioni cristiane come indici del "cammino decisivo". Perché allora veramente si rischia di rientrare nella teologia della sostituzione e la Croce diventa ostacolo. Il dialogo ebraico-cristiano soffre inevitabilmente di questo rischio, perché l'idea della realizzazione delle promesse ebraiche è base della fede cristiana; quindi l'affermazione di questa fede contiene sempre un'implicita idea di integrazione, se non di superamento della fede ebraica. Questo anche quando si dichiara, con il Concilio e Nostra aetate, che le promesse al popolo ebraico sono irrevocabili. Ma la propria differenza non può essere proposta all'altro come il modello da seguire. In questo modo si supera un limite che nel rapporto ebraico-cristiano può sembrare sfumato ma che deve essere invalicabile. Perlomeno non è un modo di dialogare che possa interessare gli ebrei. Per usare un'espressione oggi molto comune, è come passare dall'et et all'aut aut. La lingua del dialogo deve essere comune e il progetto deve essere condiviso. Se i termini del discorso sono quelli di indicare agli ebrei il cammino della Croce, non si capisce il perché di un dialogo e il perché di Assisi.

(©L'Osservatore Romano 29 luglio 2011)


Ebrei e cattolici verso il prossimo incontro di Assisi

Sicuramente la Croce non è un ostacolo

di KURT KOCH

Posso capire che il Rabbino Capo Di Segni abbia reagito in maniera così sensibile al mio articolo sulla "Giornata di riflessione, dialogo e preghiera" ad Assisi. Difatti, vi si menzionava un tema che non solo è pesantemente connotato dal punto di vista storico ma costituisce anche oggi una difficile questione nel dialogo ebraico-cattolico. Pertanto, desidero offrire brevemente le seguenti riflessioni.
Il mio articolo si rivolgeva ai lettori cristiani, a cui volevo far presente il loro compito di riconciliarsi anche e precisamente con l'ebraismo, compito che deriva dall'essenza stessa della fede cristiana. È nella logica di questa fede la centralità fondamentale della croce di Gesù come fulcro della riconciliazione tra Dio e gli uomini. Ma è anche per l'amore nutrito nei confronti dell'ebraismo e per l'amicizia, degna di riconoscenza, che mi è stata testimoniata dal Rabbino Capo Di Segni, che ho voluto far riferimento alla croce, dato che questa è stata a lungo considerata come un grande ostacolo alla riconciliazione tra cristiani ed ebrei. Volevo infatti mostrare che, partendo precisamente dall'evento della croce, i cristiani hanno il dovere di riconciliarsi con gli ebrei. Per i cristiani la croce non può essere "un ostacolo al dialogo interreligioso". Se i rappresentanti di altre religioni e soprattutto gli ebrei, la vedono in tal modo, non sta a me giudicare; ciò si iscrive piuttosto nella libertà della convinzione religiosa di ognuno. Non ritengo assolutamente che gli ebrei debbano vedere la croce come noi cristiani per poter intraprendere insieme il cammino verso Assisi. Il fatto che Yom Kippur rappresenti una data fondamentale nel calendario liturgico ebraico e che rivesta un'importanza centrale per la fede ebraica è per me fuori discussione e lo rispetto. A me stava a cuore semplicemente il compito comune della riconciliazione e della pace, sapendo bene che per entrambe la motivazione è diversa negli ebrei e nei cristiani. Tutto ciò che esula da questo rispetto reciproco contraddirebbe lo spirito nel quale Papa Benedetto XVI rivolge il suo invito a partecipare alla Giornata di Assisi.
Alla luce di ciò, non si intende pertanto sostituire lo Yom Kippur ebraico con la croce di Cristo, anche se i cristiani vedono nella croce "il permanente e universale Yom Kippur". Ecco che viene qui toccato il punto fondamentale, molto delicato, del dialogo ebraico-cattolico, ovvero la questione di come si possano conciliare la convinzione, vincolante anche per i cristiani, che l'alleanza di Dio con il popolo d'Israele ha una validità permanente e la fede cristiana nella redenzione universale in Gesù Cristo, in modo tale che, da una parte, gli ebrei non abbiano l'impressione che la loro religione è vista dai cristiani come superata e, dall'altra, i cristiani non debbano rinunciare a nessun aspetto della loro fede. Senz'altro, tale questione fondamentale occuperà ancora a lungo il dialogo ebraico-cristiano; qui può essere menzionata solo brevemente. Tuttavia, essa non è sicuramente un ostacolo al fatto che cristiani ed ebrei, nel reciproco rispetto davanti alle rispettive convinzioni religiose, s'impegnino a promuovere la pace e la riconciliazione e s'incamminino insieme, così, verso Assisi.

(©L'Osservatore Romano 29 luglio 2011)

12.7.11

Nei crocevia difficili della storia


di Andrea Riccardi (Comunità di Sant'Egidio)
Osservatore Romano del 12/07/2011

Siamo a venticinque anni dall’evento di Assisi del 1986: il mondo è tanto cambiato. Allora la cultura occidentale considerava le religioni come una realtà che la modernità avrebbe spazzato via o ridotto agli angoli privati della vita. Il beato Giovanni Paolo II, al contrario, aveva intuito la forza pubblica delle religioni, nonostante la secolarizzazione. Sapeva che le religioni potevano essere attratte dalle passioni belliciste. Preoccupato per la guerra fredda, convocò i leader cristiani e delle religioni mondiali ad Assisi. Non mancavano modelli d’incontro tra religioni: spesso dialoghi, non rispettosi della sostanza di fede — che riposavano sull’idea di religioni in fondo tutte uguali — si erano alternati ad appelli dei leader religiosi per l’una o l’altra causa politica.
Giovanni Paolo II era lontano da tali modelli. Volle Assisi come una giornata di preghiera e di silenzio, in cui non si discutesse o si negoziasse: diversa dai congressi interreligiosi. Niente di più lontano dalla circolante idea dell’Onu delle religioni. Il fulcro fu l’invocazione di pace: «Forse mai come ora nella storia dell’umanità — disse — è divenuto a tutti evidente il legame intrinseco tra un atteggiamento autenticamente religioso e il gran bene della pace».
L’evento stupì il mondo, colpito dall’immagine del Papa tra i leader religiosi. Qualcuno ne parlò come di uno spettacolo televisivo più che una seria discussione. C’era invece una bellezza di quell’immagine del 1986, che conquistò la gente. Anche la pace ha bisogno di toccare il cuore dei popoli, talvolta affascinati dalla guerra — come si vide dopo il 1989 con il risorgere delle passioni belliciste e il culto della guerra. L’evento del 1986 interpretò l’«estetica» della pace, forte di una carica spirituale. Fu — ha scritto Benedetto XVI — una «puntuale profezia». Ci volevano una tregua dello spirito e delle armi, richieste da Papa Wojtyła il 4 ottobre 1986 a Lione in un appello — troppo dimenticato — a politici e signori della guerra.
Giovanni Paolo II respinse sempre chiaramente l’idea di Assisi come la manifestazione di una specie di interreligione, auspicata da circoli ristretti. La volle come la rappresentazione plastica di quanto il Vaticano II insegna con la Nostra aetate. Da subito, il Papa proclamò la sua fede in Cristo e disse il rispetto per le altre credenze. La sua idea era che, da quel momento, dovesse partire un movimento per coinvolgere i credenti delle varie religioni: «quell’evento — ha scritto all’Incontro internazionale di preghiera per la pace di Lisbona nel 2000 — non poteva rimanere isolato. Aveva, infatti, una forza spirituale dirompente: era come una sorgente da cui cominciavano a scaturire nuove energie di pace. Per questo ho auspicato che lo “spirito di Assisi” non si estinguesse, ma potesse espandersi per il mondo». Il Papa era convinto che tale spirito dovesse vivere nel quotidiano, come raccomandò per il sinodo libanese; ma pensava che ci fosse bisogno anche di momenti simbolici. Che un movimento dello spirito dovesse sorgere, lo si sente nella parole di commiato ad Assisi: «La pace attende i suoi artefici (…) La pace è un cantiere, aperto a tutti e non soltanto agli specialisti, ai sapienti e agli strateghi. La pace è una responsabilità universale».
Infatti, scaturì un rinnovato impegno dei cattolici per la pace, con attenzione alla fondamentale dimensione della preghiera e ai rapporti con i seguaci delle diverse religioni. Ne emerse anche un concreto impegno per spegnere il fuoco della guerra in varie parti del mondo. È cresciuta, in venticinque anni, la consapevolezza che i cristiani hanno una «forza di pace» e non sono condannati alla passività o alla protesta verbale. Ricordo che, alla giornata di Assisi, si seppe della morte del presidente del Mozambico in un incidente e, in quel quadro, si avviò la mediazione tra belligeranti che avrebbe condotto alla pace nel Paese — dopo un milione di morti. Un senso spirituale del valore della pace conduceva a un’operosità concreta — non declamatoria — per vivere in pace tra diversi e per lenire tensioni e violenze. Sarebbe da scrivere una storia dell’impegno dei cristiani e della Chiesa per la pace tra gli anni Ottanta e la fine del secolo.
La locuzione «spirito di Assisi» ha avuto interpretazioni talvolta incerte o erronee; ma nel suo corretto significato illumina l’impegno della Chiesa nel servizio all’unità delle genti, che è anche comprensione e dialogo tra popoli credenti. Quando si parla di religioni, infatti, non si deve pensare a realtà uguali né da un punto di vista teologico, né sociologico e organizzativo. Esistono i popoli credenti, impregnati di tradizioni religiose che fanno riferimento a figure istituzionali o carismatiche. Un atteggiamento pacifico tra «religioni» vuol dire pace tra popoli credenti: espelle la violenza dai rapporti mutui, fa prendere coscienza che le reali diversità non fondano odio o disprezzo.
Il movimento iniziato ad Assisi è continuato. Il mondo francescano, in tanti Paesi, se ne è fatto carico. La Comunità di Sant’Egidio organizza incontri annuali tra leader religiosi in differenti città del mondo nello spirito del 1986: da Roma a Varsavia nel 1989 (con un pellegrinaggio ad Auschwitz, a cui parteciparono i musulmani) a Malta, Gerusalemme, Lione, Bucarest (evento che aprì al viaggio di Giovanni Paolo II in quel Paese, come ha dichiarato il patriarca Daniel), fino a Cipro o altrove. In una delle sue lettere a questi incontri — per Palermo 2002 — il Papa scrisse che il 1986 «segnò l’inizio di un nuovo modo di incontrarsi tra credenti di diverse religioni: non nella vicendevole contrapposizione e meno ancora nel mutuo disprezzo, ma nella ricerca di un costruttivo dialogo in cui, senza indulgere al relativismo né al sincretismo, ciascuno si apra agli altri con stima, essendo tutti consapevoli che Dio è la fonte della pace». Così Giovanni Paolo II concluse: «Da allora, quasi prolungando lo “spirito di Assisi”, si è continuato ad organizzare queste riunioni di preghiera e di comune riflessione e ringrazio la Comunità di Sant’Egidio per il coraggio e l’audacia con cui ha ripreso lo “spirito di Assisi” che di anno in anno ha fatto sentire la sua forza in diverse città del mondo».
Al cammino di Assisi si sono aggiunti vari leader religiosi e, specie dagli anni Novanta, parecchi non credenti: faccio l’esempio tra i molti del presidente portoghese Soares o di Jean Daniel, sensibili al tema della pace e del suo fondamento spirituale. Progressivamente l’incontro tra religioni e culture ha preso corpo, ruotando attorno alla giornata di preghiera e di silenzio, con un colloquio in cui ci si confrontasse in modo amichevole e ragionevole. Così l’evento di Assisi del 1986 è divenuto una manifestazione — non quotidiana ma «straordinaria» — di pace tra popoli credenti, ripetuta con cadenza annuale, sollecitatrice di comprensione a livello locale e nel quotidiano. Ha alimentato una reale amicizia tra credenti di varie religioni e tra questi e i laici. Infatti il «dialogo» non ha solo una portata intellettuale, ma suscita amicizia, fatto rilevante tra mondi e persone che si ignorano o sono tentati dalla contrapposizione.
Giovanni Paolo II ha vissuto l’incontro con i seguaci delle diverse religioni nei suoi viaggi apostolici: «tutti i viaggi sono un po’ la continuazione di Assisi. E Assisi è già un fatto possiamo dire irreversibile (…) E si deve dire che Assisi era frutto di tanti viaggi», dichiarò di ritorno dall’Asia. Nel 1994, con il conflitto nei Balcani, il Papa è tornato ad Assisi con ebrei e musulmani — mancavano gli ortodossi — per pregare per la pace. Cinque anni dopo, ha guidato in piazza San Pietro un’assemblea di leader religiosi alla vigilia del grande giubileo: «Il compito che dovremmo affrontare — disse — sarà quello di promuovere una cultura del dialogo. Da soli e tutti insieme, dobbiamo dimostrare che la fede religiosa ispira la pace».
Dopo il terribile attentato alle Torri Gemelle, nel 2002, l’idea di Assisi è sembrata a molti anacronistica o ingenua. Non era in corso uno scontro di religione e di civiltà? Papa Wojtyła, con un gesto solenne — dopo aver chiesto ai cattolici di digiunare l’ultimo giorno del Ramadan — volle di nuovo la preghiera ad Assisi. Si apriva un decennio di grande tensione, mentre — di fronte alla cieca violenza terroristica — l’accostamento benevolo tra religioni sarebbe stato tacciato di ingenuità. Osama bin Laden, in uno dei suoi proclami aggressivi, ha dichiarato: «loro vogliono il dialogo, noi la morte». Spesso si è affermato un atteggiamento liquidatorio verso il colloquio tra mondi religiosi.
Conviene sottolineare la via tracciata da Benedetto XVI con i suoi incontri dalla moschea blu di Istanbul alla sinagoga di Roma, che, in ottobre 2011, giungerà ad Assisi. Parlando a Napoli, nel 2007, all’incontro dei leader religiosi promosso dalla Comunità di Sant’Egidio, il Papa ha affermato: «tutti siamo chiamati a lavorare per la pace e ad un impegno fattivo per promuovere la riconciliazione tra i popoli. È questo l’autentico “spirito di Assisi”, che si oppone ad ogni forma di violenza e all’abuso della religione quale pretesto per la violenza». La logica dello scontro non è il futuro dell’umanità. Ma bisogna orientare cuori e menti non allo scontro di civiltà, ma alla civiltà del vivere insieme: ciò richiede il coinvolgimento delle energie spirituali. Il Papa concludeva a Napoli: «Di fronte a un mondo lacerato dalla violenza, dove talvolta si giustifica la violenza in nome di Dio, è importante ribadire che mai le religioni possono divenire veicoli di odio (…) Al contrario, le religioni possono e devono offrire preziose risorse per costruire un’umanità pacifica, perché parlano di pace al cuore dell’uomo». Sarà la sfida di Assisi nel 2011, ma è anche quella del vivere insieme in pace tra genti di tradizione e identità differente. Nei crocevia difficili della storia, la Chiesa cattolica, mentre testimonia la sua fede in Gesù Cristo, unico Salvatore dell’umanità, serve l’unità delle nazioni, sperando di suscitare il senso della santità della pace e della vita umana nell’animo dei seguaci di tutte le religioni.

9.7.11

Anche alcuni non credenti pellegrini per la pace

di Gianfranco Ravasi,
Cardinale presidente del Pontificio Consiglio della Cultura
Il 27 ottobre, ad Assisi, accanto a Benedetto XVI e alla folla di rappresentanti delle varie confessioni cristiane e delle religioni del mondo, ci sarà anche un piccolo gruppo di cinque persone, pellegrini un po’ particolari e inediti nella città di san Francesco. 

8.7.11

L'impegno delle religioni in vista dell'incontro di Assisi

di PETER KODWO APPIAH TURKSON,
Cardinale presidente del Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace
Parlare dell’impegno delle comunità religiose per la giustizia e per la pace significa evocare la loro cooperazione in vista del bene comune della società, nel quadro di un loro dialogo. 

7.7.11

Ad Assisi un pellegrinaggio della verità e della pace

di KURT KOCH
Cardinale presidente del Pontificio Consiglio per la promozione dell'unità dei cristiani

Benedetto XVI ha convocato una "Giornata di riflessione, dialogo e preghiera per la pace e la giustizia nel mondo" in occasione del venticinquesimo anniversario del primo "Incontro interreligioso per la preghiera per la pace". 

6.7.11

Le ragioni della pace e l'unico logos

di William Joseph Levada
Cardinale prefetto della Congregazioneper la Dottrina della Fede

L'annuncio che il prossimo 27 ottobre Benedetto XVI si recherà pellegrino ad Assisi per una «Giornata di riflessione, dialogo e preghiera per la pace e la giustizia nel mondo» mostra che l'esperienza religiosa nelle sue diverse forme è oggetto dell'attenzione della Chiesa nel terzo millennio. 

4.7.11

L'incontro di Assisi tra riflessione e preghiera

di JEAN-LOUIS TAURAN
Cardinale presidente del Pontificio Consiglio per il dialogo interreligioso

Il 27 ottobre sarà celebrato, com'è noto, il venticinquesimo anniversario della storica "Giornata di preghiera per la pace nel mondo", voluta, ad Assisi, nel 1986, dal beato Giovanni Paolo II.

3.7.11

Da Assisi 1986 ad Assisi 2011 il significato di un cammino

di Tarcisio Bertone 


Il 25 gennaio del 1986, della messa celebrata nella basilica di San Paolo fuori le Mura, il beato Giovanni Paolo II pronunciò un appello, nel contesto dell'Anno internazionale della pace indetto dall'Onu, rivolto non solo ai cattolici o ai credenti in Cristo, ma anche agli appartenenti alle diverse religioni del mondo e a tutti gli uomini di buona volontà, affinché da tutti venisse invocato con insistenza il dono della pace.